Antologia Critica

Dino Pasquali

Dino Pasquali

Silvano Morandi non è certo Platone, e dunque non possiede l‘autorità di un prestigioso adito accademico nel cui frontone inscrivere: “Non entri nessuno che non sa di geometria”. Ad ogni modo noi, che della razionale dama conosciamo soltanto le “superficiali” doti estetiche, non ci sentiamo scoraggiati al punto di Iasciar cadere la penna, la quale, sebbene inadatta a farci varcare la soglia proibita, almeno ci serve per ricordare fugacemente che essa, Ia geometria (misurazione della terra — come suggerisce, qui non da famosa dottrina aleatoria, l’etimologia — e poi “scienza dell’estensione”), pare sia nata ola un antico, tutto umano bisogno di risolvere questioni pratiche inerenti alla misura tura dei campi. E a questi — oltre che ad altri dati del visibile — costei, descrittiva, piana, solida, ritorna con la pittura di Morandi. Ma ripropone le sue linee perpendicolari, parallele e no, i suoi angoli, triangoli, quadrangoli, cerchi, non per “banali” ragioni di mensura, sebbene per fini di espressione artistica: si potrebbe quindi modificare un anziano topos, l‘arcinoto luogo comune ut pictura poesis, in ut pictura… geometria (e chiediamo venia, alle persone convincentemente serie, qualora nella variazione… parafrastica si trovi un biasimevole carattere di boutade). Vecchia sentenza, ormai divenuta stereotipa, la massima che vuole ognuno figlio dei proprio tempo, pur quando codesti abbia deciso per una posizione di fronda — o persino di rivolta — allo Zeitgeist che circola intorno a lui. Perciò è abbastanza logico che l’occhio d’un pittore che ha conosciuto il nutrito repertorio delle forme astratte (in auge in vari settori, non ultimo quello delle immagini televisive, quantunque nella pittura quel repertorio non imperversi più, se mai vi ha imperversato) ne mantenga l’apprezzamento e la mano lo favorisca. E proprio il caso di Morandi, che a tali forme si rifà anche se ha stabilito di parlarci di fatti naturali (ad esempio di un albero che in autunno perde le foglie). Sono forme che stanno per altre (verbigrazia un bianco “asterisco” per un fiocco di neve), “segni” — al di là dell’essere non tanto dei concepimenti inediti quanto delle riesumazioni dal magazzino della memoria — per trascrivere il vero senza imitarlo, o imitarlo troppo, senza riprodurlo con gli scopi della fotocopia, del facsimile. E come significanti quei segni hanno vuoi doti proprie, “valori” puri, poetici giungenti e non esprimere altro da sé, vuoi un bagaglio di nessi, di confronti, di scambi dialettici con i significati, con gli oggetti dei reale a cui rimandano, da cui ricevono deleghe alla rappresentanza, alla referenza. Ovviamente “percepiti nell’ambito delle forme culturali – ideologiche di una data società”, i referenti citato dal Nostro, sebbene nella citazione configurati in maniera soggettiva, “arbitraria”, sebbene sottoposti a “licenza poetica”, combinati in tavole e “favole”, di sapore avveniristico, non sono delle chimere (dei parti dell’immaginazione), bensì cose davvero esistenti: un’autostrada, un ponte, un missile, uno sputnik, una pianta, un prato, una scogliera, il mare e via scegliendo fra tanti motivi artificiali e motivi naturali. Ma non quelli, i referenti, vanno qui, ecco il punto, presi in considerazione, essi costituendo la realtà extrapittorica, sebbene i traslati (nel loro scarto dall’originale, nel divergere dal modello) che ne da Morandi con la propria “capacità di manipolazione dell’immagine nei codici sottesi all’ars del dipingere”. In più brevi parole, a pretendere l’esame e il tipo di pittoricità da lui proposto, tipo peraltro contraddistinto da un rigore tecnico che può arrivare al virtuosismo, da un’esecuzione laboriosa, richiedente la proverbiale pazienza dei monaci dell’ordine di S. Brunore. D’altro canto se nella prassi poetica il pittore geometrizza i campioni del vero, l’uomo (che Silvano espunge regolarmente dai quadri, pur se quel medesimo uomo continua a brillare in absentia, con i suoi fatti e misfatti, con le sue opere e male opere) non gli e da meno nella prassi vitale, ad esempio allorché violenta un frutteto col metterlo alla griglia, col porne impeccabilmente a filare oltre che i tronchi le frasche e i rami; e perciò lascia capire quanto la natura sia più un luogo da sfruttare che un luogo da abitare, a prescindere dall’inferirle colpi addirittura letali, in barba ad ogni ecologia. Presa, con il precedente capoverso, la via dei contenuti, annotiamo ora che l‘esposizione in atto concerne almeno due stadi dell’evolversi del lavoro di Morandi, un lavoro che sul piano stilistico, pur tra affinamenti, maturazioni e superamenti di taluni inevitabili candori, non denota nel tempo fratture, essendo al contrario d’un esemplare consequenzialità. Articolatosi e sviluppatosi in un discreto numero di anni, il “primo>> stadio riguarda una tendenza al fantastico, o meglio ad un mondo fantascientifico (mondo che ormai, visti i progressi delle navi spaziali e dei loro viaggi, può aspirare alla definizione di scientifico tout court), mentre il “secondo”, di più recente costituzione, ha maggiori implicazioni naturalistiche, di preferenza purtenendo agli aspetti dei fenomeni del circostante sui quali |’uomo non ha controlli, o non ne ha ancora il ritmo delle stagioni, un crepuscolo mattutino, la luce del sole, un cielo che brulica di stelle, l’arcobaleno. Per concludere, se si ritiene attendibile la nozione spitzeriana secondo cui stile e deviazione della norma, allontanamento dallo standard, allora non si dubiti che il caso di Silvano Morandi sia un caso di stile.