Antologia Critica

Franco Solmi

Franco Solmi

Vi sono artisti che operano sostanzialmente appartati anche se il loro lavoro riflette modi e tendenze proprie di una cultura figurativa anche divulgatissima come, per esempio, quella surrealistica che in Silvano Morandi assume accenti particolari approdando a quel “surrealismo strutturale” di cui ha parlato, proprio per questo giovane, Giuseppe Marrocchi presentando una personale del 1972. Da allora, da quando cioè il presentatore poteva scrivere Legittimamente di un “movimento scenografico d’effetto”, la pittura di Silvano Morandi s’e venuta come prosciugando, e s’e fatta essenziale. Resta l’antimonia fra il suggerimento di natura e l’immanenza delle strutture meccaniche portate a incombere minacciose su cieli appiattiti e su paesaggi ridotti a linee scheletriche, quasi una memoria perduta delle antiche luci di natura e di lievi tremori vitali. Ma e una antinomia che sta risolvendosi per il prevalere dei grovigli metallici e delle masse di cemento che ora, a differenza di quanto avveniva qualche anno fa, occupano tutta la superficie del dipinto rendendola ad una maggiore unita formale. L”opera si fa, cosi, più limpida e più agghiacciante insieme e il “racconto” che vi si può leggere e quello di una bellezza levigata, tanto più inquietante quanto più si presenta con I’assolutezza del simbolo. I margini del fantastico, insomma, si sono irrigiditi per dar luogo ad una immagine che vive soprattutto della gelida euritmia di Iuci e colori propri della civiltà dell’acciaio e del vetrocemento. Anche i monti innevati, le pianure distese, i fiori e gli steli metallici che bucano il terreno hanno, nelle ultime opere, il sapore di strutture prefabbricate poste quasi ad irridente ornamen-to di paesaggi da fantascienza. Può darsi che Silvano Morandi abbia, con queste presenze, voluto mantenere in vita la possibilità di una incredula coesistenza fra I’imagerie teonologica e la parvenza umana (o neumanistica) del dato naturale, ma e evidente che quello scandirsi martellato dei piani in superficie, quei dilatarsi di strappi geometrici che fan galleggiare brani di terra e di verde attorno agli immoti tralicci delle costruzioni, conduce Io spettatore a leggere per linee di simbologia “industriale” ogni proposta figurativa. Poco spazio e lasciato al mistero o alla speranza in qualche riscatto del sentimento. Si e cioè verificato compiutamente quei che Morrocchi aveva visto come processo in atto allorché scriveva: – E’ via via che queste “composizioni’ si arricchiscono di linee equilibrate che danno vita a costruzioni fantasiose per prendere il sopravvento sulla natura, intesa come significato emotivo, trascinano con una forza misteriosa nel loro mondo ogni sensazione per dominarla e condizionarla – . Tanto più e sapiente la creazione di queste città immaginarie, limpide e squillanti d”evidenza, quanto più l’inquietudine si addensa, come rappresa nei brillio di cristalli di morte. Sono pianeti senza possibile umanità quella di cui Silvano Morandi ci narra la storia, oasi deserte ove anche la memoria pare stenti ad aggirarsi. Forse il pittore ha operato una vera e propria sostituzione d’oggetti, come accade sovente in arte. Al mondo degli uomini e della vita ha sostituito l’immagine nettissima — e financo suggestiva – di un pianeta asettico, senza palpiti, agghiacciante nella sua implacabile oggettività. E una pittura, questa, che ha il sapore d’un presagio, forse amaro, forse soltanto disincantato, ma che rimanda a qualche evento d’un futuro ineludibile.